Simon Anderson

CAPITOLO 1 – SIMON ANDERSON: IL GIGANTE BUONO

Ho scelto, per questa prima pillola di cultura surfistica, di presentare un personaggio noto prevalentemente ai più attempati surfisti. Un gigante, in tutti i sensi. Fisicamente, per la sua impressionante stazza. Sportivamente, per la vittoria in alcuni dei più prestigiosi eventi tra la metà degli anni 70 e metà anni 80. Intellettualmente, per aver ideato, realizzato e resa popolare la Thruster, la tavola a tre pinne che ha permesso un nuovo, più aggressivo e radicale attacco al lip, rivoluzionando l’intera comunità surfistica mondiale. I rapidissimi, effetti della sua invenzione hanno velocemente influenzato non solo il modo di surfare di milioni di surfisti in tutto il mondo, ma anche i criteri di giuria nel circuito professionistico. Infine, umanamente. Per la sua proverbiale riservatezza che lo ha sempre tenuto lontano dai riflettori, il suo approccio “easy” alle gare, il suo attaccamento agli amici, agli spot e allo stile di vita della sua North Narrabean. Ho scelto di iniziare con lui, con Simon Anderson, a mio modesto parere uno dei top 10 personaggi più influenti degli ultimi quarant’anni.

Testo e foto: Alessandro Dini

Non basterebbero duecento pagine per descrivere a fondo il personaggio e gli effetti che l’attività di sportivo e di shaper di Simon Anderson hanno esercitato sul nostro amato sport. Proverò quindi a darvi le informazioni utili a far capire la grandezza del personaggio e del perché, almeno secondo me, per molto tempo è stato decisamente sottovalutato dai più importanti media di settore. Non dico ignorato, ma decisamente sottovalutato, si. SA ha iniziato a surfare nel 1965 all’età di 11 anni, a Collaroy, un piccolo paese a nord di Sydney, dove un altro “big” passava le sue giornate sul longboard, in attesa di diventare campione del mondo pochi anni dopo a San Diego, dando il via alla “shortboard revolution”: Nat Young. Le lunghe e gentili onde di Collaroy erano perfette per la tavola lunga. Ma era pochi km più a nord che i surfisti locali stavano sperimentando nuove tavole e un più moderno e radicale attacco al lip. I sand banks alla bocca della laguna di Narrabean garantivano onde ripide, spesso tubanti, dove il giovane Simon imparò presto a infilarsi e a sviluppare un’abilità che, unita alla sua poderosa struttura fisica lo avrebbero aiutato di lì a poco ad eccellere sulle ben più toste onde hawaiiane. Grazie al suo approccio pacato, fu subito accettato dalla comunità locale, influenzata da personaggi come Geoff McCoy e Terry Fitzgerald nella costruzione di tavole, e da tipi come Col Smith nel modo di surfare. Presto trovò un impiego come fixing dings (riparatore) presso la Shane Surfboards, al tempo forse la più nota surfboard factory della zona, con una paga di 40 dollari alla settimana per 40 ore di lavoro. Per darvi un immediato flash su cosa era North Narrabean al tempo, paragonatela alla odierna Hossegor: la capitale della surf industry australiana. Nella sola zona di Brookvale c’erano già una ventina di surfboard factories! Simon è quindi cresciuto nel tipico contesto dove si surfava al mattino e nella factory fino a pranzo. Poi di nuovo a lavoro, surf session al tramonto e poi a bere birra, molta birra: ora a casa di amici, ora in un pub locale, ora di nuovo nella surfboard factory fino a notte fonda per terminare delle commande urgenti. E’ questo stile di vita, questo desiderio di unire il surf sulle onde e il lavoro nella surfboard factory che l’ha portato a fare delle scelte che non hanno certo favorito la sua carriera professionistica in un circuito non certo così organizzato e ricco come quello odierno. Ma non si deve cadere nell’errore di dedurne che Simon non fosse determinato e ambizioso. Lo era, e come, ma a modo suo, con i suoi tempi calmi, riflessivi. Evito, per motivi di spazio, di fare l’elenco dei primi titoli nazionali junior, ma il suo passaggio da sconosciuto ragazzino venuto da Collaroy, a uno dei più rispettati surfer australiani è stato di una rapidità impressionante., soprattutto in considerazione della folta concorrenza. Il 1971 fu l’anno in cui il ragazzino iniziò a farsi rispettare a Bells Beach. Nel 1973, quando si iniziò a parlare di un circuito professionistico con un discreto montepremi, Simon considerò l’idea di parteciparvi, ma sempre con alcune riserve: viaggiare, lasciare la sua attività di shaper per affrontare costi difficili da coprire in caso di risultati deludenti, mmhh… non era un’opzione che lo allettava troppo. Il circuito era ancora traballante e anche i pro più noti del momento erano costretti a trovare alloggi a buon prezzo e a calcolare bene i costi di trasferta per ogni gara. Tuttavia, i risultati arrivarono e nel 1977 per un breve periodo fu addirittura primo in classifica generale davanti a gente come Wayne Bartholomew, Shaun Tomson, Mark Richards… Ma ben presto il gigante buono si rese conto che le sue prestazioni sulle onde sotto ai 5/6 piedi erano scarse, paragonate a quelle di surfisti agili e di statura più minuta, uno per tutti? Cheyne Horan. E purtroppo per lui, nel circuito c’erano troppe locations dove le gare potevano svolgersi in condizioni di onda piccola. Prima del 1980 la single fin era ancora la tavola usata da almeno il 95% dei surfisti nel mondo. Simon era cresciuto surfando sulla single fin, sulla quale non aveva problemi a esprimere il suo miglior surf su onde di una certa misura e potenza. Con il tempo era riuscito anche a progettare una single fin più corta e spessa sulla quale riusciva a surfare con efficacia e incisività su onde da uno a tre piedi ma non era riuscito a colmare il gap dai tre ai 6 piedi. E purtroppo per lui, spesso e volentieri erano proprio le condizioni che si presentavano più spesso nelle competizioni. Era davvero dura battere gente come Mark Richards o Cheyne Horan in simili condizioni, soprattutto da quando “il gabbiano ferito” (MR) aveva iniziato a gareggiare su una twin fin che gli dava un netto vantaggio in small conditions. Si dice che se MR non avesse inizato a usare la twin fin su onde piccole, e se Cheyne Horan non si fosse fissato nel continuare a surfare una single fin, almeno uno dei quattro titoli mondiali vinti da MR sarebbe stato conquistato da Cheyne. Mentre Mark Richards, ma soprattutto Shaun Tomson e Wayne Rabbit Bartholomew si erano totalmente dedicati al pro surfing, Simon continuava a shapare tavole e a gareggiare negli eventi dove sapeva di poter ambire alla vittoria, ovvero su onde di una certa misura e potenza. Facilitato dalla sua ormai notevole conoscenza della shaping art, riusciva ad adattare perfettamente gli shapes al suo surf. Nel 1975 aveva lasciato la Shane factory per mettersi in proprio, lanciando il brand Energy Surfboards. L’inverno 1976/77 Simon decise di passarlo alle Hawaii. Era l’epoca del “Busting Down the Door” quando Wayne Rabbit Bartholomew e Ian Cairns, due personaggi “larger than life” avevano provocato con il loro proverbiale super-ego, l’orgoglio e la suscettibilità dei locals, rendendo davvero pericolosa la permanenza dei surfisti (non solo australiani) sull’intera North Shore. Una caccia attiva costrinse Rabbit, Ian e altri australiani a chiudersi in hotel per molti giorni, e solo una intermediazione di Eddie Aikau (ma questa è un’altra storia che tratterò in un altro articolo), permise ai “provocatori” di lasciare l’isola in sicurezza. L’approccio di Simon fu completamente diverso: invece di frequentare assiduamente gli spot più famosi, da Pipeline a Sunset, Simon si limitò a surfare in quelli più tranquilli, meno affollati da pro e fotografi. Amava uno spot più a est, dove affittò insieme a Phil Jarratt un appartamento al Kuilima Resort (vicino a dove ora si trova il Turtle Bay Hilton) e a volte lo si vedeva a Rocky Point. Questo profilo basso gli attirò le simpatie di diversi surfisti hawaiiani che ammiravano il suo surf fatto di potenza e la voce che c’era un biondo gigante australiano che surfava meglio di quei cazzoni che si gettavano su ogni onda a Pipeline credendo di insegnare qualcosa di nuovo ai locals, iniziò a girare sempre più insistentemente su tutta la costa. In effetti, SA surfava Pipeline con la stessa disinvoltura con cui dominava la line-up a North Narrabean o a Dee Why: late take off, stall, dentro! Al rientro dalle Hawaii Simon si chiuse nella shaping room, il lavoro arretrato era tanto, ma il 1977 era anche l’alba del surf professionistico. Si poteva guadagnare qualcosa, pensò il gigante. Forse valeva la pena lasciare per qualche giorno la factory e tentare. In fondo, due dei più importanti eventi del circuito erano vicini: lo Stubbies Classic a Burleigh Heads e il Bells Beach. Il primo evento andò male, perse al secondo round, ma vinse il secondo, il mitico Rip Curl a Bells e successivamente il Coke Surfabout a Sydney. In pochi giorni aveva guadagnato 9.000 dollari ed era al comando della classifica generale. Adoro Simon perché aveva uscite come questa: “A quel punto provai il desiderio di vincere il titolo mondiale, ma non sono sicuro che credevo veramente di potercela fare. Mi sono sempre considerato un gradino sotto i top riders e quel sentimento probabilmente mi ha frenato. Mi sono costruito delle nuove tavole perché le mie erano piuttosto fini, e ho continuato il circuito determinato a dare il massimo”. Che mito! Nonostante i risultati, SA non otteneva molta attenzione da parte dei media di settore. Lo stesso Phil Jarratt, mio capo marketing in Quiksilver per alcuni anni, in qualità di direttore della rivista Tracks ha recentemente ammesso di non spiegarsi come mai, nonostante gli importanti risultati degli anni precedenti, solo nel 1977 si era deciso a dare la dovuta attenzione a quel surfista emergente. Quello che piaceva a tutti era la sua riservatezza, il non volersi mettere sotto i riflettori, il saper rinunciare a opportunità importanti a favore di uno stile di vita tranquillo, senza mai cadere nel rimpianto. Fu nel 1980 cambiò la storia del surf design creando la Thruster, una tavola a tre pinne più o meno della stessa grandezza. Il suo sogno di poter dare sfogo alla sua potenza anche in condizioni di onda piccola era finalmente realizzato. Nel giro di due anni, nessuno surfava più una single o una twin fin: la tenuta e la più morbida azione “rail to rail” della thruster avevano aperto la strada a una nuova generazione di surfisti smaniosi di portare il surf ad un altro livello. Chiunque altro sarebbe diventato ricco, semplicemente brevettando l’invenzione. Ma non Simon. Con l’umiltà che l’ha sempre caratterizzato, ha sempre sostenuto che la Thruster aveva cinque padri con cui condividere il merito. Per onestà intellettuale e rispetto verso quelli che erano, che sono i suoi amici, a rinunciato ad arricchirsi brevettando la thruster. Bel bischero, dirà qualcuno… io dico: gente d’altri tempi… averne!

Ecco, secondo Simon, i cinque padri della thruster:
Il primo padre è Mark Richard, che aveva perfezionato e reso nota la twin fin. Senza quella rivalità e lo stimolo a trovare una tavola adatta a contrastare il dominio di Mark, la Thruster sarebbe stata inventata almeno un decennio dopo.
Il secondo padre è Geoff McCoy, grazie alla sua no-nose che permetteva di applicare tre pinne nell’area del tail, così drasticamente aumentata. Il terzo è un certo Frank Williams che aveva mostrato a SA una tavola a due pinne alla quale aveva applicato una piccola, semicircolare pinnetta centrale. Il quarto e ultimo padre (bontà di Simon), Steve Zoeller, il suo resinatore che aveva limato una pinna fino a renderla uguale alle due lateriali. Ovviamente, il quinto padre era lui. Con la sua thruster, SA ha vinto nel 1981 sia il Bells Beach Classic che l’ Offshore Pipeline Masters.

Numerosi pro hanno gareggiato con gli shapes di Simon in alcuni dei più prestigiosi eventi del circuito professionistico. Kelly Slater ha usato una 6’1” nei quarti a Teahupoo nel 2005 eseguendo un epico quanto miracoloso recovery “schiena nell’acqua” nel tube. Kelly vinse anche a J-Bay con una Simon Andersen Thruster. Andy Irons, Mick Fanning e molti altri pro surfers hanno usato in alcuni eventi del circuito le sue tavole.
Quasi 40 anni dopo la sua invenzione, quando un surfista ha un dubbio su che tavola usare, la scelta ricade inevitabilmente sulla tri-fin.

Personalmente ho avuto il grande piacere e onore di conoscere Simon, di organizzare per lui e altri shapers australiani lo Shapers Tour tra il 2005 e il 2008, in lungo e largo sul territorio italiano. Ho sentito storie e racconti che mi hanno fatto amare, oltre allo shaper, la persona. Umile, sempre disponibile, scherzoso. Gentile. Insomma, un gigante buono.

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